Il contraente non inadempiente deve scegliere se promuovere azione per risarcimento del danno o trattenere la caparra; questo è il principio che ha; affermato la Cassazione a Sezioni Unite con Sentenza n. 553 del 14/01/2009.
Precedenti pronunce avevano rimarcato il fatto che, una volta richiesta la risoluzione del contratto di diritto (per scadenza del termine essenziale, clausola risolutiva espressa o diffida ad adempiere) il creditore non aveva diritto a trattenere la caparra in quanto il contratto, già risolto, avrebbe impedito il recesso, possibile, logicamente, solo in ipotesi di contratto vigente; la nuova pronuncia va oltre, tracciando l'evoluzione storica degli istituti demolitori dell'accordo negoziale, ovvero della risoluzione e del recesso, per giungere alla conclusione che i due rimedi abbiano natura diversa e debbano, pertanto, essere esperiti alternativamente, in quanto non sussiste fungibilità all'interno di un procedimento giudiziario.
Secondo le Sezioni Unite, la caparra costituisce un negozio accessorio con duplice funzione, quella di individuare il negozio a tutela del contratto principale nonché quella di stabilire la somma destinata a fungere da ristoro economico a seguito di inadempimento; da ciò discende che la caparra assume "funzionalità patologica" al fine di rafforzare il contratto, avvicinandosi alla cauzione e, contemporaneamente, rilievo di autotutela in caso di inadempimento. La parte non inadempiente, peraltro, potrebbe adire la via ordinaria, chiedendo la risoluzione ed il risarcimento ma, in detta ipotesi, la caparra assumerebbe mera funzione di garanzia e, al termine del giudizio, se il risarcimento fosse riconosciuto in misura inferiore alla stessa, la differenza deve essere restituita.
Il contrasto è sorto in relazione alla cumulabilità dei due rimedi (recesso e risoluzione), ovvero alla loro fungibilità se presentati in un giudizio.
Invero, secondo le sezioni Unite, il rimedio del recesso del contraente non inadempiente, con conseguente ritenzione della caparra (confirmatoria), esisteva già nel Codice Civile del 1865 e permetteva la possibilità di sciogliere il rapporto e conseguire il risarcimento in via stragiudiziale e, in alternativa, era consentito agire in giudizio per l'adempimento; con il nuovo Codice Civile il legislatore del 1942 ha introdotto l'ulteriore possibilità di richiedere il risarcimento integrale del danno, attraverso un procedimento giudiziario volto alla risoluzione del contratto per inadempimento.
Il punto centrale del ragionamento, per la Corte, è non tanto vagliare i mezzi del recesso o della risoluzione, che costituiscono entrambi rimedi risolutori, quanto evidenziare il fine economico della domanda, ovvero il conseguimento del risarcimento integrale o la ritenzione della caparra; i due istituti, che presuppongono natura diversa, sono inconciliabili.
La Corte giudica affermando, dapprima, la analogia tra i rimedi della risoluzione del contratto e del recesso del contraente inadempiente, sussistendo la medesima causa petendi, quindi negando la possibilità di intraprendere entrambe le azioni o modificare la domanda in corso di giudizio, trattandosi di diverso petitum ovvero diverso bene giuridico preteso.
Secondo la Cassazione, la risoluzione ed il recesso comportano due rimedi risolutori ma, mentre il primo è un rimedio giudiziale volto all'integrale risarcimento, il secondo è, fondamentalmente, un rimedio stragiudiziale e l'indennizzo (la caparra) è forfetizzato; da quanto sopra ne discende che il contraente non inadempiente deve scegliere se recedere e trattenere la caparra (o richiedere il pagamento del doppio di quella versata) o agire in giudizio per il risarcimento integrale ma lo stesso non potrà, successivamente, cambiare idea, magari in quanto non è riuscito a dimostrare il danno, né può ipotizzarsi una ipertutela del contraente non inadempiente a richiedere il risarcimento integrale ma riconosciuto nella misura minima rappresentata dall'importo della caparra.
Avv. Paolo Gatto
Consulente legale A.P.P.C.