Secondo la Cassazione (Sent. n. 3705 del 15/12/2011) il divieto, contenuto in un regolamento contrattuale, di tenere animali nelle abitazioni private e nelle parti comuni costituisce una clausola di natura contrattuale che pone una servitù reciproca tra i condòmini e, pertanto, può essere modificata solo all'unanimità atteso che è inibito all'assemblea decidere a maggioranza .
La decisione della S.C. ha cassato la sentenza della Corte d'Appello di Bari che, al contrario, aveva ritenuto la clausola di natura assembleare e, pertanto, modificabile da parte dell'assemblea.
Nella specie, il giudice di merito era giunto a tale conclusione sulla base del presupposto che la disposizione era stata prevista al fine di un migliore godimento delle parti comuni e non presentava, pertanto, natura reale di servitù negativa.
In relazione al regolamento contrattuale nonostante sussista, tra i più, la convinzione che non sia modificabile che con l'unanimità dei consensi, in realtà la Cassazione (da ultimo, Sent. n. 17694/07) è orientata nel senso che solo le clausole di natura contrattuale (contenenti divieti, limiti, oneri reali, obbligazioni propter rem e diritti reali) necessitino dell'unanimità mentre per le altre clausole relative a materie contenute nell'art. 1138 c.c. (decoro, norme sull'amministrazione ecc. uso delle parti comuni) sia sufficiente la maggioranza qualificata ancorché le clausole stesse siano contenute in regolamento di origine contrattuale.
In particolare, sono da considerarsi clausole di natura contrattuale quelle che pongano dei limiti all'uso delle unità immobiliari esclusive o pongano divieti all'uso delle parti comuni, ciò in quanto è inibito all'assemblea porre dei divieti ai condomini anche sulle parti comuni poiché l'assemblea può solo disciplinare l'uso, per un migliore godimento, ma non impedirlo.
E' da rilevare che, talvolta, appare difficile individuare la natura di una clausola, ovvero se si tratti di una disposizione regolamentare, dettata al fine di disciplinare l'uso delle parti comuni, o si tratti, al contrario, di una clausola contrattuale che ponga dei vincoli all'uso delle parti private e comuni, soprattutto nelle ipotesi in cui il vincolo cada sull'uso delle parti comuni.
In effetti, qualora il limite a tenere animali fosse stato circoscritto alle parti comuni la norma avrebbe potuto assumere connotazione regolamentare e presentare, pertanto, natura equivoca, mentre la sua estensione alle abitazioni private ne fa assumere sicura natura reale.
Normalmente, l'interpretazione delle clausole del regolamento, che costituisce, a tutti gli affetti, un contratto, è demandata al giudice di merito, per cui la Cassazione può intervenire solo in caso di illogica motivazione; nel caso in esame la Corte, forse andando al di là dei suoi poteri, ha direttamente interpretato la disposizione sulla base di una censura del ricorrente (contestuale violazione di legge e illogica motivazione) che, di norma, implica l'inammissibilità del motivo.
E' da rilevare, inoltre, che la clausola di natura contrattuale pone limiti anche nei confronti del conduttore, il quale è tenuto ad uniformarsi al regolamento ed il locatore che non agisca nei confronti dell'inquilino che violi la norma ne risponde di fronte al condominio (Cass. 11383/06) che può ottenere il risarcimento del danno nei confronti del condòmino-locatore.
Rimane la difficoltà pratica di fare rispettare una siffatta norma regolamentare, mediante allontanamento di animali domestici.
Avv. Paolo Gatto
Presidente Nazionale ALAC