Appalto - Contratto di appalto, difformità e vizi e responsabilità dell’appaltatore.
Valerio Sangiovanni
Avvocato, Rechtsanwalt e Dottore di ricerca in Diritto commerciale
SINTESI
a) Il contratto di appalto
Il contratto di appalto è particolarmente diffuso nella prassi. Una delle contestazioni che insorge con maggiore frequenza fra i contraenti riguarda la non corretta esecuzione dell’opera (sia per difformità rispetto al progetto pattuito con il committente sia per la presenza di vizi funzionali), che spinge talvolta a negare il corrispettivo all’appaltatore. In caso di difetti, la legge prevede una garanzia ex lege in capo all’appaltatore e a beneficio del committente.
b) La garanzia per i difetti dell’opera
La responsabilità dell’appaltatore per l’opera è di tipo contrattuale.
Il committente ha il dovere di attivare tempestivamente la garanzia, dal momento che la legge subordina i suoi diritti a termini sia di decadenza sia di prescrizione. Lo spettro dei rimedi a favore del committente è ampio: oltre all’azione di esatto adempimento, può chiedere la riduzione del prezzo. Nei casi più gravi si può ottenere la risoluzione del contratto, mentre rimane sempre salva la possibilità di chiedere il risarcimento del danno.
SOMMARIO
- La garanzia legale per le difformità e i vizi
- L’esclusione della garanzia in caso di accettazione dell’opera
- Il termine di decadenza per la denunzia (art. 1667, 2º co., c.c.)
- La prescrizione delle azioni (art. 1667, 3º co., c.c.)
- L’eliminazione delle difformità e dei vizi nonché la diminuzione del prezzo
- Il risarcimento del danno
- La risoluzione del contratto
In apertura è quasi superfluo ricordare che i contratti di appalto rivestono grande importanza pratica, dal momento che la realizzazione di opere nel settore dell’edilizia avviene sulla base di tali tipi di contratto (1). I contratti di appalto, oltre a essere estremamente diffusi nella prassi, riguardano talvolta costruzioni d’ingente valore economico: di qui una delle cause della facilità di controversie fra le parti. Le obbligazioni derivanti dal contratto di appalto sono identificate dall’art. 1655 c.c. nel «compimento di un’opera» (dovere dell’appaltatore) verso un «corrispettivo in danaro »(2) (dovere del committente) (art. 1655 c.c.).
Il contenzioso in materia di appalto concerne frequentemente l’asserzione del committente che l’opera non è stata eseguita a regola d’arte, ponendosi così un problema di responsabilità civile dell’appaltatore: è di questa tematica che intendiamo occuparci nel presente scritto, dando conto in particolare dei più recenti interventi giurisprudenziali (3).
La responsabilità dell’appaltatore, derivando da contratto, ha natura contrattuale. Il principio è stato confermato di recente dalla Corte di Cassazione, laddove ha evidenziato che la garanzia ex artt. 1667 e 1668 c.c. costituisce un’applicazione della comune responsabilità per inadempimento o inesatto adempimento, differenziata dall’ordinario regime solo dalle particolari disposizioni attinenti ai termini di contestazione e decadenza(4)appalto è sostanzialmente di tipo oggettivo, nel senso che prescinde dalla colpa dell’appaltatore(5). Salvo per il caso in cui sia avviata un’azione di risarcimento del danno (cfr. il testo dell’art. 1668, 1º co., c.c., che – per questa ipotesi – richiede espressamente la colpa), la colpa dell’appaltatore non rileva: una volta accertati le difformità e i vizi dell’opera, il costruttore risponde comunque. Questa affermazione deve peraltro essere coordinata con le disposizioni generali in materia di obbligazioni. In particolare, come è noto, il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). La disposizione di parte generale sulla responsabilità del debitore si applica anche al contratto di appalto. Ne consegue che l’appaltatore potrà andare esente da responsabilità solo nel caso estremo in cui riesca a dimostrare l’impossibilità della prestazione. Sempre in via generale è lecito allora osservare che l’obbligazione del costruttore è un’obbligazione di risultato (realizzare un’opera a regola d’arte) e non solo di mezzi.
La diligenza con cui è tenuto a operare l’appaltatore è sicuramente di tipo professionale (art. 1176, 2º co., c.c.): essa deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata. L’appaltatore deve pertanto dominare le regole dell’arte delle costruzioni. Sotto questo profilo merita di essere ricordata una sentenza del Tribunale di Piacenza secondo cui l’appaltatore è esonerato da responsabilità soltanto ove dimostri che gli errori del progettista non potevano essere riconosciuti con l’ordinaria diligenza richiesta all’appaltatore stesso, ovvero che – pur essendo gli errori stati prospettati e denunciati al committente – questi ha però imposto l’esecuzione del progetto, ribadendo le istruzioni, posto che in tale eccezionale caso l’appaltatore ha agito come nudus minister, a rischio del committente e con degradazione del rapporto a mero lavoro subordinato(6).
In materia di contratti di appalto, così come del resto si prevede in altri tipi contrattuali(7), sussiste una forma di garanzia legale: l’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera (art. 1667, 1º co., 1º periodo, c.c.)(8). La legge disciplina due fattispecie distinte: le «difformità» e i «vizi». Con l’espressione di «difformità» ci si riferisce al fatto che sussiste una divergenza fra l’opera che doveva essere realizzata secondo gli accordi intercorsi fra i contraenti e quella che è stata effettivamente realizzata: il contratto di appalto imponeva certe caratteristiche della costruzione, che però – nei fatti - non vengono rispettate (il caso tipico potrebbe essere quello dell’utilizzo di mattonelle per la pavimentazione meno pregiate rispetto a quelle concordate). Con il termine di «vizi», la legge si riferisce al fatto che l’opera presenta dei difetti rispetto a come avrebbe dovuto essere se fosse stata eseguita a regola d’arte: il criterio per misurare l’esistenza del vizio non è tanto l’accordo dei contraenti quanto piuttosto la regola dell’arte, che impone di realizzare manufatti ben funzionanti (il caso tipico potrebbe essere quello della pavimentazione fatta sì con le mattonelle pregiate che erano state concordate, ma che presenta delle irregolarità, così che il pavimento non è perfettamente piano e – pertanto - inidoneo all’uso).
Le «difformità» e i «vizi» presuppongono che l’opera sia terminata. Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che sul punto può ormai ritenersi costante, la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 c.c. trova applicazione solo nell’ipotesi in cui l’opera sia stata completata, ma presenti vizi, difformità o difetti; laddove, nel caso in cui l’appaltatore non abbia portato a termine l’esecuzione dell’opera commissionata, restando inadempiente all’obbligazione assunta con il contratto, la disciplina applicabile nei suoi confronti è quella generale in materia di inadempimento contrattuale, dettata dagli artt. 1453 e 1455 c.c.(9).
Pur trattandosi di una responsabilità ex lege, la garanzia per le difformità e i vizi dell’opera potrebbe essere convenzionalmente esclusa. In assenza di un accordo derogatorio sul punto, la garanzia ovviamente sussiste, ma – in presenza di una pattuizione che la esclude – viene meno. Bisogna però capire quali siano i requisiti di forma che devono essere soddisfatti per escludere la garanzia. Al riguardo si può affermare che la posizione della giurisprudenza è molto liberale, nel senso di far bastare anche i comportamenti concludenti delle parti. In particolare la Corte di Cassazione ha deciso che l’esenzione dell’appaltatore dalla responsabilità per i difetti dell’opera, con conseguente assunzione del relativo rischio sul committente, in deroga alla regola generale in base alla quale tale rischio grava sull’appaltatore, non deve derivare necessariamente da un’espressa pattuizione in tal senso, ma può ricavarsi anche, implicitamente o indirettamente, da comportamenti concludenti delle parti contrattuali (nella specie dal fatto che, a fronte della posizione dell’appaltatore chiaramente diretta a rappresentare al committente la non condivisione delle istruzioni da queste impartite, perché contrarie alle regole dell’arte, esse erano state ribadite dal committente, il quale, in virtù della sua esperienza professionale, aveva assunto piena consapevolezza del rischio in tal modo assunto)(10).
La legge prevede che la garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili, purché in questo caso non siano stati in mala fede taciuti dall’appaltatore (art. 1667, 1º co., 2º periodo, c.c.). Bisogna pertanto anzitutto capire cosa si intenda con «accettazione » dell’opera.
Nel riferirsi all’accettazione dell’opera l’art. 1667 c.c. richiama, seppure indirettamente, l’art. 1665 c.c. in materia di verifica e pagamento della costruzione(11). Di norma (ma non sempre) l’accettazione dell’opera consiste in una dichiarazione espressa di accettazione, dopo che sono state effettuate le necessarie verifiche da parte del committente. Il committente dispone di un vero e proprio diritto di verificare l’opera compiuta (art. 1665, 1º co., c.c.). A tali procedure di controllo ci si riferisce comunemente con l’espressione di «collaudo». Le verifiche possono avere esito positivo oppure negativo. In caso di esito negativo del collaudo, l’opera non viene accettata dal committente (e la garanzia legale rimane viva). In ipotesi invece di esito positivo del collaudo, il committente accetta l’opera: questa ultima fattispecie può essere denominata di «accettazione espressa».
In altri casi, tuttavia, si realizza un’accettazione dell’opera da parte del committente anche in assenza di una dichiarazione esplicita in tal senso. In particolare la costruzione si considera accettata quando, nonostante l’invito fattogli dall’appaltatore, il committente tralascia di procedere alla verifica senza giusti motivi ovvero non ne comunica il risultato entro un breve termine (art. 1665, 3º co., c.c.). In altre parole, fermo restando il diritto di verifica del committente, il collaudo deve avvenire in tempi brevi e il suo risultato deve essere tempestivamente comunicato all’appaltatore. Inoltre, se il committente riceve senza riserve le consegna dell’opera, questa si considera accettata ancorché non si sia proceduto alla verifica (art. 1665, 4º co., c.c.). Le due fattispecie disciplinate dal 3º e dal 4º co. dell’art. 1665 c.c. configurano ipotesi di «accettazione tacita» dell’opera.
Sia nel caso di accettazione espressa sia in quello di accettazione tacita dell’opera, la garanzia cui è tenuto l’appaltatore viene meno, a condizione peraltro che le difformità o i vizi fossero conosciuti o, quantomeno, riconoscibili dal committente. L’accettazione fa venire meno la garanzia quando vi è (o, secondo criteri di diligenza, vi sarebbe dovuta essere) in capo al committente consapevolezza delle difformità e dei vizi. La disposizione crea dunque un onere di particolare vigilanza in capo al committente, il quale non può più attivare la garanzia laddove abbia accettato con superficialità l’opera senza accorgersi dei difetti. La garanzia rimane ferma però per le difformità e i vizi «occulti», intendendosi con tale espressione i difetti che non erano conosciuti né conoscibili dal committente(12).
Infine bisogna osservare che l’ordinamento non può tollerare la possibile cattiva fede dell’appaltatore, il quale – se in mala fede – potrebbe trarre vantaggio dall’accettazione dell’opera effettuata dal committente. Conseguentemente la legge sanziona il comportamento reticente del costruttore, prevedendo che la garanzia sussista – anche in caso di accettazione dell’opera – laddove l’appaltatore abbia in cattiva fede taciuto le difformità e i vizi.
La legge prevede che il committente deve, a pena di decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta (art. 1667, 2º co., 1º periodo, c.c.(13)). Il committente è dunque anzitutto tenuto a «denunziare» i vizi. La funzione della denunzia è quella d’informare l’appaltatore della presenza di difformità e vizi, affinché questi si attivi. Una volta che il committente ha denunziato i difetti, l’attivazione della garanzia implica – in capo all’appaltatore – le conseguenze previste dall’art. 1668 c.c. (eliminazione di difformità e vizi oppure diminuzione del prezzo). Il primo di tali rimedi implica un facere in capo all’appaltatore. La legge vuole evitare che il committente segnali i difetti a lunga distanza di tempo dal momento in cui sono stati scoperti, per dare immediatamente all’appaltatore l’opportunità di difendersi e – laddove difformità e vizi sussistano effettivamente - di porvi rimedio.
Fra le parti potrebbero sorgere dei contrasti in merito alle modalità con cui la denunzia deve essere effettuata. In particolare l’appaltatore potrebbe eccepire che la denunzia non è stata correttamente presentata dal punto di vista della forma oppure del contenuto. Con riferimento alla forma della denunzia, bisogna rilevare che la legge non prescrive nulla di particolare: conseguentemente si può ritenere che la denunzia possa essere presentata in assoluta libertà di forme, e pertanto anche oralmente. Una situazione diversa si ha nel caso particolare in cui il contratto abbia stabilito l’osservanza di una determinata forma per la denunzia. Con riguardo al contenuto della denunzia, bisogna rilevare che la posizione della Corte di Cassazione si caratterizza per flessibilità, reputando sufficiente una contestazione anche piuttosto vaga da parte del committente, obiezione che può/deve essere successivamente dettagliata. Più precisamente la Cassazione ha affermato che non è necessaria una denuncia specifica e analitica delle difformità e dei vizi dell’opera, tale, cioè, da consentire l’individuazione di ogni anomalia di quest’ultima, essendo, per converso, sufficiente a impedire la decadenza del committente dalla garanzia cui è tenuto l’appaltatore una pur sintetica individuazione dei difetti (nella specie, attraverso la spedizione di un telegramma), suscettibile di conservare l’azione di garanzia anche con riferimento a quelle difformità e a quei vizi accertabili, nella loro reale sussistenza, solo in un momento successivo(14).
Il termine previsto dalla legge per la denunzia è di sessanta giorni decorrenti dalla scoperta. Prima della scoperta, il committente non è evidentemente in grado di effettuare alcuna denunzia; dopo la scoperta, invece, bisogna lasciargli un minimo di tempo per capire la gravità di difformità e vizi e, se del caso, per formulare la richiesta di rimedio all’appaltatore. Un termine di sessanta giorni pare ragionevolmente congruo rispetto alla funzione per la quale è fissato, forse perfino generoso se comparato con altre discipline legislative(15).
La legge stabilisce che il termine di decadenza decorre dalla «scoperta» delle difformità o dei vizi. Come vedremo sotto anche in relazione al decorso del termine di prescrizione, la scoperta può non avvenire immediatamente, ma essere il risultato di un percorso di approfondimento che dura un certo periodo di tempo. Bisogna riflettere sul fatto che il committente, di norma, non dispone delle medesime competenze tecniche dell’appaltatore e la scoperta dei difetti può non essere immediata: l’asimmetria di competenza fra le parti contrattuali può produrre l’effetto che decorra un certo lasso di tempo prima che l’appaltatore scopra le difformità o i vizi. Inoltre le opere oggetto di appalto possono in alcuni casi essere piuttosto complesse dal punto di vista architettonico e ingegneristico, con la conseguenza che le percezione dei difetti può non essere immediatamente successiva alla consegna della costruzione. Talvolta possono sorgere meri dubbi (e non certezze) in capo al committente in merito alla sussistenza di difformità e vizi e il committente può voler affidare un apposito incarico peritale per gli accertamenti del caso. Tenendo in considerazione queste circostanze, la Corte di Cassazione ha deciso che il termine di decadenza di cui all’art. 1667, 2º co., c.c. deve farsi decorrere dal momento del deposito della relazione del soggetto nominato dalle parti collaudatore degli impianti e che aveva evidenziato i difetti occulti dell’impianto(16).
In altre parole la scoperta delle difformità e dei vizi può considerarsi avvenuta non già quando il committente inizia a nutrire dei meri «sospetti» in merito ai difetti dell’opera, ma quando – ad esempio grazie a degli accertamenti peritali – ha raggiunto sul punto una ragionevole certezza.
La Corte di Cassazione si è infine soffermata sulla questione dell’onere della prova, affermando che il committente ha l’onere di provare di aver denunciato all’appaltatore i vizi dell’opera, non facilmente riconoscibili al momento della consegna, entro sessanta giorni dalla scoperta, costituendo tale denuncia una condizione dell’azione di garanzia(17).
La legge prevede che la denunzia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati (art. 1667, 2º co., 2º periodo, c.c.)(18). Siccome la funzione della denunzia è quella d’informare l’appaltatore dell’esistenza di difformità e vizi (affinché questi vi ponga rimedio in una delle modalità indicante nell’art. 1668 c.c.), tale necessità viene meno se l’appaltatore ne è già a conoscenza e l’appaltatore è per forza di cose a conoscenza dei difetti nel caso in cui li ha riconosciuti oppure se li ha occultati. Con riferimento a questa materia, la Corte di Cassazione ha deciso che il riconoscimento dei vizi da parte dell’appaltatore, che – ai sensi dell’art. 1667, 2º co., c.c. – rende non necessaria la denuncia prescritta a pena di decadenza a carico del committente, non deve essere accompagnata dall’ammissione di responsabilità dell’appaltatore. Pertanto, la denuncia è superflua anche quando l’appaltatore, pur riconoscendo l’esistenza obiettiva dei difetti lamentati, contesti o neghi in qualsiasi modo o per qualsiasi ragione di doverne rispondere(19).
Bisogna peraltro tenere distinto il riconoscimento dei difetti (che implica il solo impegno di eliminare tali difetti) dall’assunzione dell’obbligazione a emendare l’opera. La Corte di Cassazione ha deciso che il semplice riconoscimento delle difformità e dei vizi da parte dell’appaltatore implica la superfluità della tempestiva denuncia da parte del committente, ma da esso non deriva automaticamente – in mancanza di un impegno in tal senso – l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, che, ove configurabile, è una nuova e distinta obbligazione, per di più soggetta al termine di prescrizione decennale(20).
Il «riconoscimento» di difformità e vizi va tenuto distinto dall’ «occultamento» dei medesimi: si tratta di due comportamenti opposti, in quanto con il riconoscimento l’appaltatore dà atto al committente dell’esistenza dei difetti, con l’occultamento cerca invece di nasconderli. «Occultamento» delle difformità e dei vizi significa che l’appaltatore conosce l’esistenza dei difetti, ma li tiene nascosti al committente. L’occultamento può avvenire mediante un’azione (di vero e proprio nascondimento delle difformità e dei vizi) oppure mediante un’omissione. Quest’ultimo caso si realizza quando l’appaltatore, a conoscenza dei difetti, si limita a tacere, facendo affidamento che essi non vengano scoperti dal committente (ad esempio per il fatto che riguardano le fondazioni di una costruzione, ormai interrate e non più visibili).
Al riguardo la Corte di Cassazione ha deciso che la piena consapevolezza in capo all’appaltatore della esistenza di difformità e vizi, unitamente a un comportamento reticente e di mala fede nei confronti dei committenti, è da ritenere equivalente al doloso occultamento, quale circostanza idonea a esonerare i committenti dall’obbligo della denuncia dei vizi(21).
In aggiunta alla fissazione di un termine di decadenza, la legge prevede un distinto termine di prescrizione: l’azione contro l’appaltatore si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell’opera (art. 1667, 3º co., 1º periodo, c.c.)(22).
In primo luogo, dal punto di vista della identificazione degli autori delle azioni, bisogna rilevare che questa disposizione concerne solo l’azione del committente contro l’appaltatore, e non – viceversa - la possibile azione dell’appaltatore contro il committente. L’appaltatore può certamente agire contro il committente (per il pagamento del corrispettivo) e, in questo caso, la sua azione sarà soggetta a diversi termini di prescrizione.
In secondo luogo l’art. 1667, 3º co., c.c. concerne solo l’azione per le difformità e i vizi dell’opera, e non azioni di tipo diverso che il committente dovesse avviare – per altre ragioni – nei confronti dell’appaltatore. La Corte di Cassazione ha deciso che nel caso in cui contro l’appaltatore non venga azionata la speciale garanzia prevista dagli artt. 1667 e 1668 c.c., per l’ipotesi in cui l’opera eseguita presenti difformità o vizi, ma venga formulata una richiesta di pagamento, basata su un’autonoma previsione del capitolato generale dell’appalto lavori, per la riparazione di danni arrecati dai suoi dipendenti, trattandosi di un’ordinaria azione di risarcimento danni resta applicabile la disciplina dettata dagli artt. 1453 e 1455 c.c., con il conseguente assoggettamento agli ordinari termini di prescrizione e non al regime di decadenza e prescrizione breve di cui all’art. 1667 c.c.(23).
Il contenuto precettivo della disposizione che fissa in due anni il termine per la prescrizione dell’azione del committente è quello di derogare ai termini generali di prescrizione. Mentre secondo la norma generale (art. 2946 c.c.) i diritti si prescrivono in dieci anni, nel contesto dell’appalto il legislatore ha ritenuto tale termine eccessivamente lungo e obbliga il committente a esercitare l’azione entro il termine – decisamente più breve – di due anni. Il fine della legge, in una materia delicata come quella dell’appalto, è di giungere velocemente a quella certezza del diritto che solo la prescrizione può garantire.
Avuto riguardo al momento di decorrenza del termine biennale di prescrizione, la legge lo identifica nella consegna dell’opera. La ratio di tale previsione è ben comprensibile se si riflette sul fatto che è solo da tale momento che il committente, potendo visionare l’opera ormai completata nella sua interezza, è in grado di verificare la correttezza del lavoro svolto dall’appaltatore; laddove constati difformità o vizi, può agire in giudizio.
Secondo la giurisprudenza, ciò che rileva è la consegna «definitiva» dell’opera, alla quale non può essere equiparata una consegna «anticipata » con riserva di verifica della costruzione. Più precisamente la Corte di Cassazione ha deciso che il dies a quo di decorrenza del termine biennale di prescrizione dell’azione di garanzia per vizi stabilito dall’art. 1667, 3º co., c.c. deve essere individuato con riferimento al momento della consegna definitiva dell’opera (con verifica e accettazione della medesima), e non già con riguardo a un’eventuale consegna anticipata, con riserva di verifica(24).
Per quanto concerne l’onere delle prova, la Corte di Cassazione, dopo aver premesso che il committente che agisce nei confronti dell’appaltatore per le difformità e i vizi dell’opera ha l’onere di provare i fatti posti a fondamento della sua domanda e quelli necessari per contrastare le eventuali eccezioni della controparte, ha deciso che – qualora l’appaltatore eccepisca la prescrizione biennale del diritto di garanzia – la prova della data della consegna dell’opera, da cui il termine di garanzia decorre, incombe sul committente stesso e non sull’appaltatore(25).
In alcuni casi tuttavia la giurisprudenza ha ritenuto che il termine biennale di prescrizione decorra non dalla consegna dell’opera, ma da un momento successivo, e segnatamente dalla scoperta dei vizi. Più precisamente la Corte di Cassazione ha affermato che nel caso di vizi occulti il termine di prescrizione dell’azione di garanzia decorre dalla data della scoperta dei vizi, scoperta che è da ritenere acquisita dal giorno in cui il committente consegua un apprezzabile grado di conoscenza oggettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dall’imperfetta esecuzione dell’opera, non essendo sufficienti manifestazioni di scarsa rilevanza e semplici sospetti(26). La Cassazione ha specificato che, in assenza di anteriori ed esaustivi elementi di prova, tale conoscenza è da ritenere acquisita – di regola – a seguito dell’esperimento di apposita relazione peritale.
Con una disposizione particolare la legge prevede che il committente convenuto per il pagamento può far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna (art. 1667, 3º co., 2º periodo, c.c.)(27).
La disposizione si riferisce al caso in cui sia l’appaltatore ad agire in giudizio per ottenere il pagamento dell’opera. Siccome l’azione dell’appaltatore non è assoggettata a termini così brevi di decadenza e di prescrizione, potrebbe accadere che il committente – esposto all’azione dell’appaltatore – non sia in condizioni di contestare in via riconvenzionale le difformità e i vizi dell’opera. Il risultato che ne conseguirebbe (committente che paga il prezzo per un’opera difforme o viziata) appare iniquo. Per risolvere questo possibile problema il legislatore consente che, se il committente viene convenuto in giudizio, possa esercitare in via riconvenzionale i rimedi per i difetti dell’opera.
Il committente convenuto può però far valere la garanzia se le difformità e i vizi sono stati denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna. Esistono dunque due limiti invalicabili che il committente è tenuto a rispettare. Il primo di essi consiste nella denuncia dei difetti, che deve avvenire entro sessanta giorni. Come accennato, tale limite di tempo consente senz’altro al committente di valutare la gravità delle difformità e dei vizi e d’indirizzare all’appaltatore una univoca lettera di contestazione. Esiste inoltre un secondo termine invalicabile: i due anni dalla consegna.
Decorso tale lasso di tempo senza che siano stati scoperti difformità e vizi, il legislatore esclude che si possano sollevare contestazioni tardive al committente. Al fine di assicurare certezza del diritto si presume che i difetti, di cui il committente non si è accorto per così lungo tempo, non possano essere di rilevanza tale da giustificare l’esercizio dei rimedi altrimenti riconosciuti al committente.
L’art. 1668 c.c. stabilisce quale sia il contenuto della garanzia cui è tenuto l’appaltatore in forza di legge: il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore (art. 1668, 1º co., c.c.). Vengono identificati tre rimedi: eliminazione di difformità e vizi oppure diminuzione del prezzo oppure risarcimento del danno. Il committente dispone di una facoltà di scelta, nel senso che – a seconda delle valutazioni che effettua nel caso specifico – può chiedere l’esatto adempimento oppure può accettare l’opera con difformità e vizi ottenendo però una diminuzione del prezzo che è chiamato a pagare.
Il primo rimedio che l’ordinamento riconosce al committente a fronte di un’opera che presenta difformità o vizi consiste nella richiesta di eliminazione di tali difetti(28). Si tratta in essenza di una richiesta di esatto adempimento della prestazione originariamente pattuita. Le difformità o i vizi altro non rappresentano che la differenza fra quello che avrebbe dovuto essere l’esatto adempimento e quello che è stato il reale adempimento.Mediante l’eliminazione dei difetti, l’opera finisce con l’essere a regola d’arte, come avrebbe dovuto essere fin dall’inizio.
Le spese necessarie per l’eliminazione di difformità e vizi sono ovviamente, specifica la legge, a carico dell’appaltatore. Questi è il soggetto che, non osservando esattamente il contratto, ha realizzato un’opera difforme oppure viziata e appare equo che i costi necessari per il raggiungimento ex post dell’esatto adempimento siano a suo carico.
Può naturalmente capitare che l’appaltatore si rifiuti di eliminare difformità e vizi: in questo caso sarà necessario procedere all’esecuzione forzata. L’obbligazione che fa capo all’appaltatore è un obbligo di fare e, conseguentemente, l’esecuzione forzata andrà eseguita secondo le regole previste per tale tipologia di obblighi. L’art. 2931 c.c. prevede che, se non è adempiuto un obbligo di fare, l’avente diritto può ottenere che esso sia eseguito a spese dell’obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura civile.
La Corte di Cassazione ha affermato che la tutela data al committente dall’art. 1668 c.c. si inquadra nell’ambito della normale responsabilità contrattuale per inadempimento e, pertanto, qualora l’appaltatore non provveda direttamente alla eliminazione dei vizi dell’opera, il committente – ove non intenda ottenere l’affermazione giudiziale dell’inadempimento con la relativa condanna dell’appaltatore e l’attuazione dei suoi diritti nelle forme dell’esecuzione specifica ex art. 2931 c.c. – può sempre chiedere il risarcimento del danno, nella misura corrispondente alla spesa necessaria all’eliminazione dei vizi, senza alcuna necessità del previo esperimento dell’azione di condanna alla esecuzione specifica(29).
Il secondo tipo di rimedio a disposizione del committente è la diminuzione proporzionale del prezzo. Il committente, a fronte di un’opera che presenta difformità e vizi, può – ciò nonostante – decidere di accettare il bene così come esso si trova, pretendendo peraltro che l’appaltatore gli riconosca una riduzione del prezzo. L’opera non è perfetta (nel senso di come originariamente pattuita), ma – quantomeno – grazie alla diminuzione del prezzo è ripristinato l’equilibrio sinallagmatico delle prestazioni dei contraenti. La Corte di Cassazione ha deciso che il committente che, deducendo difformità dell’opera eseguita dall’appaltatore, agisce per la riduzione del prezzo ha l’onere di provare il deprezzamento, non essendo questo un effetto necessario e costante delle difformità dell’opera, a meno che queste difformità non dipendano dall’impiego di materiali meno pregiati di quelli contrattualmente previsti o da altre cause che per la loro intrinseca natura incidono sul pregio dell’opera; in tal caso la riduzione, che di regola deve essere determinata in base al raffronto del valore e del rendimento dell’opera pattuita con quelli dell’opera difettosamente eseguita, può anche farsi coincidere col costo delle opere necessarie per l’eliminazione delle difformità(30).
Oltre all’eliminazione dei difetti e alla diminuzione del prezzo, il terzo rimedio riconosciuto dalla legge al committente consiste nel chiedere il risarcimento del danno patito a causa dell’opera difettosa eseguita dell’appaltatore(31). Il risarcimento del danno può essere chiesto dal committente in via autonoma (come unico rimedio) oppure in via cumulativa (in aggiunta ai rimedi dell’eliminazione dei difetti e della diminuzione del prezzo). Il risarcimento del danno può essere anzitutto chiesto in via autonoma, cioè indipendentemente dall’esercizio degli altri due rimedi: il committente non chiede né la eliminazione dei difetti né la diminuzione del prezzo, ma chiede solo il risarcimento del danno. Il risarcimento del danno può però essere chiesto anche in via cumulativa, in aggiunta a uno degli altri due rimedi.
La possibilità di chiedere il risarcimento del danno presuppone la sussistenza di un elemento oggettivo (il danno, appunto) e di un elemento soggettivo (la colpa).
Per quanto riguarda l’elemento oggettivo della fattispecie (la presenza di un danno), bisogna considerare che l’appaltatore che ha eseguito un’opera con delle difformità o dei vizi presenta un lavoro non eseguito a regola d’arte. L’adempimento non è stato esatto ed è possibile che, per tale ragione, il committente subisca un danno. Secondo la regola generale (art. 1223 c.c.) il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno. A seconda dei casi il ristoro potrà essere chiesto per un inadempimento vero e proprio (difformità oppure vizi) oppure per un ritardo nella consegna dell’opera rispetto al termine pattuito. Nel contesto del contratto di appalto, il ritardo nella consegna può determinare frequentemente danni in capo al committente. Si pensi al caso della costruzione di un appartamento destinato all’abitazione di una famiglia: se la consegna non avviene tempestivamente, il nucleo familiare può essere costretto a pagare un canone di locazione di un altro appartamento per il periodo del ritardo. Laddove poi l’edificio sia destinato a produrre reddito, la consegna ritardata può determinare significativi mancati guadagni: si immagini il ritardo nella consegna di un centro commerciale e i conseguenti mancati introiti derivanti dalla mancata vendita di prodotti.
La Corte di Cassazione ha deciso che l’azione del committente per il risarcimento del danni derivanti dai vizi dell’opera appaltata riguarda il ristoro dei pregiudizi patrimoniali non realizzabile tramite l’esperimento dell’azione per l’eliminazione dei vizi o di quella di riduzione del prezzo (e concernente la lesione di interessi del committente tutelati dall’ordinamento, quali il danno a persone o a cose derivanti dai vizi o le spese di rifacimento che il committente abbia provveduto a eseguire direttamente)(32). La Cassazione ha specificato che nell’ambito di tale azione risarcitoria rientrano i danni conseguenti al ridotto godimento dell’immobile di proprietà del committente riconducibili alla necessità di procedere a interventi finalizzati alla eliminazione dei vizi dell’opera appaltata o ancora quelli relativi al ritardo nell’adempimento, essendo configurabile un pregiudizio derivante al committente dall’eventuale ridotta utilizzazione dell’appartamento conseguente all’ingiustificata protrazione dei lavori da eseguire rispetto ai termini pattuiti.
Con riferimento all’elemento soggettivo (la colpa) della fattispecie, il risarcimento del danno può essere riconosciuto solo quando vi sia un addebito di colpa in capo all’appaltatore. Questa disposizione è importante perché consente, argomentando ex negativo, di qualificare per il resto come «oggettiva» la responsabilità del costruttore. L’appaltatore risponde per le difformità e i vizi dell’opera comunque (indipendentemente dall’elemento della colpa), dovendo rimuovere tali difetti oppure dovendo accettare una corrispondente diminuzione del prezzo (salvo provare che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile ex art. 1218 c.c.). In materia di onere della prova la Corte di Cassazione ha affermato che il committente che agisce nei confronti dell’appaltatore ai sensi dell’art. 1668 c.c. per il risarcimento dei danni derivanti da vizi o difformità dell’opera non ne è tenuto a dimostrare la colpa, in quanto – vertendosi in tema di rponsabilità contrattuale – trova applicazione la generale regola dettata dall’art. 1218 c.c., secondo la quale tale colpa è presunta fino a prova contraria(33).
I rimedi riconosciuti dalla legge al committente che abbiamo appena esaminato (richiesta di eliminazione delle difformità e dei vizi oppure – in alternativa – di diminuzione del prezzo da corrispondersi per l’opera) sono rimedi che possiamo definire «conservativi»: essi non mirano a fare venire meno il contratto, ma – al contrario – presuppongono il mantenimento del medesimo. Nel primo caso si tratta di migliorare l’opera per renderla a regola d’arte; nel secondo di adeguare il prezzo a un’opera che non è a regola d’arte (o che non è stata effettuata come progettata).
Nella struttura rimediale configurata dalla legge, i rimedi conservativi sono però affiancati – nei casi più gravi – dal rimedio risolutorio(34). Il testo legislativo prevede difatti che, se le difformità o i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto (art. 1668, 2º co., c.c.). A queste condizioni (opera talmente difforme o viziata da essere del tutto inadatta alla sua destinazione), l’interesse del committente al conseguimento della costruzione non è più realizzabile e sarebbe iniquo costringerlo ad accettare un’opera del tutto inadatta. Per queste ragioni la legge gli consente di chiedere la risoluzione del contratto, con gli effetti liberatori e restitutori che conseguono a tale rimedio. Il primo presupposto di applicazione della disposizione che consente la risoluzione è la presenza di difformità e di vizi: delle relative nozioni ci siamo già occupati sopra e non sarà qui necessario ripetersi.
Il secondo presupposto di applicazione della norma è che l’opera sia del tutto inadatta alla sua destinazione. A fronte di una domanda di risoluzione del contratto di appalto avanzata dal committente, bisogna allora – di volta in volta – procedere a un esame delle caratteristiche delle difformità e dei vizi lamentati. La loro gravità va misura rispetto alla destinazione dell’opera. Sarà pertanto di norma necessario disporre una consulenza tecnica per accertare quale sia la gravità di difformità e vizi e se tale gravità rende impossibile la soddisfazione della destinazione cui la costruzione era destinata. Se i difetti superano la soglia di tollerabilità, il committente può invocare la risoluzione del contratto. Sotto questo profilo la normativa in materia di appalto consente la risoluzione del contratto in un numero inferiore di casi rispetto a quanto avviene in via generale. L’art. 1455 c.c. prevede che il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti, letteralmente, «ha scarsa importanza». Da questa espressione della legge si ricava che il contratto può essere risolto in tutti gli altri casi, e certamente almeno nell’ipotesi in cui l’inadempimento abbia significativa importanza. Nella disciplina dell’appalto, invece, l’ipotesi risolutoria del contratto appare essere del tutto residuale: l’opera deve essere, letteralmente, «del tutto inadatta». In linea di principio si può pertanto affermare che è più facile, per la parte adempiente, ottenere la risoluzione di un diverso contratto rispetto a quanto lo sia ottenere la risoluzione di un contratto di appalto. Questa scelta di politica legislativa è sostanzialmente condivisibile, attesa la funzione del contratto di appalto, che è quella di consentire la realizzazione di un’opera: una volta che l’opera è stata terminata, per quanto presenti difformità e vizi, è auspicabile che essa possa essere conservata (se possibile portata a regola d’arte mediante eliminazione dei difetti, altrimenti accettata comunque dal committente a fronte di una riduzione del prezzo). L’ipotesi risolutoria è residuale, in quanto con essa l’opera rimane del tutto inutilizzata, venendo per così dire «restituita» all’appaltatore, senza che il committente ne possa trarre vantaggio.
La Corte di Cassazione ha affermato che la risoluzione del contratto di appalto è ammessa nella sola ipotesi in cui l’opera, considerata nella sua unicità e complessità, sia assolutamente inadatta alla destinazione sua propria in quanto affetta da vizi che incidono in misura notevole sulla struttura e funzionalità della medesima, così da impedire che essa fornisca la sua normale utilità, mentre se i vizi e le difformità sono facilmente e sicuramente eliminabili il committente può solo richiedere, a sua scelta, uno dei provvedimenti previsti dal 1º co. dell’art. 1668 c.c.(35). La Cassazione ha specificato che la valutazione delle difformità o dei vizi deve avvenire in base a criteri obiettivi, ossia considerando la destinazione che l’opera riceverebbe dalla generalità delle persone, mentre deve essere compiuta con criteri soggettivi quando la possibilità di un particolare impiego e/o di un determinato rendimento siano dedotti in contratto.
La risoluzione del contratto è un rimedio c.d. «restitutorio» che, facendo venire meno il rapporto contrattuale fra le parti, obbliga alle restituzioni, con effetto retroattivo (art. 1458, 1º co., c.c.): se le prestazioni sono già state effettuate, esse vanno restituite. Laddove le prestazioni non fossero ancora state rese, le parti ne sono liberate e non vi è più bisogno di effettuarle. Molto recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che, nei contratti a prestazioni corrispettive, la retroattività della pronuncia costitutiva di risoluzione per inadempimento, collegata al venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite, comporta l’insorgenza a carico di ciascun contraente dell’obbligo di restituire la prestazione ricevuta: la sentenza che pronuncia la risoluzione del contratto per inadempimento produce, difatti, un effetto liberatorio ex nunc, rispetto alle prestazioni da eseguire, e un effetto recuperatorio ex tunc, rispetto alle prestazioni eseguite(36). La Cassazione ha specificato che, una volta pronunciata la risoluzione del contratto, in forza della operatività retroattiva di essa stabilita dall’art. 1458 c.c., si verifica per ciascuno dei contraenti una totale «restitutio ad integrum» e, pertanto, tutti gli effetti del contratto vengono meno e con essi tutti i diritti che sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi.
Più in dettaglio, e con riferimento al prezzo per l’opera: se il prezzo è già stato pagato all’appaltatore, in parte o completamente, questi dovrà restituirlo; se invece il prezzo non è ancora stato pagato all’appaltatore, questi non avrà diritto a percepirlo. Il principio va però interpretato correttamente nel caso in cui, pur verificandosi la risoluzione del contratto, certe parti dell’opera siano state eseguite a regola d’arte, rimangano in capo al committente e questi ne tragga vantaggio. Sul punto il Tribunale di Catania ha affermato che, in caso di risoluzione del contratto di appalto per gravi vizi dell’opera, l’appaltatore condannato al rimborso delle somme versategli ha diritto a ottenere – a prescindere da una specifica domanda restitutoria – l’equivalente pecuniario delle opere già realizzate che siano utilizzabili dal committente e incorporate nell’immobile di sua proprietà(37). L’autorità giudiziaria catanese specifica che per le opere già eseguite che il committente intende utilizzare ovvero che a lui ormai appartengono iure accessionis per essere state incorporate nell’immobile di sua proprietà compete all’appaltatore un diritto a ottenere l’equivalente economico delle stesse. Questo diritto va affermato come conseguenza diretta degli effetti restitutori di cui all’art. 1458 c.c., convertendosi il valore delle opere non restituibili nel loro equivalente economico.
Viene da chiedersi se il committente possa dapprima esercitare l’azione di risoluzione, per poi modificarla – in corso di causa – in azione di diminuzione del prezzo. Può cioè capitare che la valutazione iniziale del committente sia nel senso di totale inadeguatezza dell’opera, ma che – poi – tale valutazione muti, nel senso che il committente è disponibile ad accettarla purché con una significativa riduzione del prezzo. Nel contesto del contratto di compravendita, vi è una disposizione particolare che regola questa fattispecie, prevedendo che la scelta fra risoluzione del contratto e riduzione del prezzo è irrevocabile quando fatta con la domanda giudiziale (art. 1492, 2º co., c.c.). La ratio della norma è ben comprensibile: vero è che il compratore ha facoltà di scelta, ma tale scelta deve essere effettuata una volta per tutte, al fine di considerare anche gli interessi del venditore. Questi deve sapere il prima possibile se otterrà la restituzione del bene (in conseguenza della risoluzione del contratto) oppure se il bene verrà trattenuto dal compratore e dovrà invece accontentarsi di un prezzo inferiore. Nel contratto di appalto sussiste invece una disciplina difforme. La Corte di Cassazione ha difatti affermato che il committente che, per difetti dell’opera, abbia esperito azione di risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore può successivamente modificare la domanda in quella di riduzione del prezzo(38). Secondo la Cassazione non soltanto non è estensibile all’appello il principio, dettato per la vendita dall’art. 1492, 2º co., c.c. dell’irrevocabilità della scelta, operata mediante domanda giudiziale, fra risoluzione del contratto e riduzione del prezzo, ma – nel caso d’inadempimento dell’appaltatore – il divieto posto dall’art. 1453, 2º co., c.c. impedisce al committente che abbia proposto domanda di risoluzione di mutare tale domanda in quella di adempimento, ma non anche di chiedere la riduzione del prezzo.
Infine bisogna osservare che l’azione di risoluzione del contratto non esclude la possibilità di chiedere, in aggiunta, il risarcimento del danno. Il committente, oltre alla restituzione dei compensi già pagati per l’opera malamente riuscita, può ottenere il risarcimento del danno ulteriore che abbia patito. A titolo di esempio si pensi al caso di un impianto di depurazione per acque reflue che viene costruito da un appaltatore, ma risulta non funzionante. Se, a causa del malfunzionamento dell’impianto, è necessario ricorrere allo spurgo, i relativi costi possono essere addebitati all’appaltatore che vi ha dato causa costruendo un’opera non adatta all’uso.
Note e citazioni
Si riproduce per gentile concessione dell'autore, Avv. Valerio Sangiovanni, e dell'editore, Ipsoa Wolters Kluwer